Le campagne display generano davvero valore aggiunto per gli inserzionisti? Quale tra i tanti canali mi ha portato migliori risultati in termini di fatturato? Come posso misurare l’impatto reale del mio messaggio su un determinato canale al netto degli altri mezzi?
I temi legati alla misurazione dell’efficacia delle campagne pubblicitarie sono da sempre considerati importanti dagli inserzionisti, ma soprattutto da qualche anno sono aumentate le insoddisfazioni sulle metriche disponibili, dato emerso anche da una recente indagine di Integral Ad Science (IAS Report “Look ahead: Transparency will shape 2018”, febbraio 2018) che evidenzia come una delle principali preoccupazioni degli advertiser sia proprio la mancanza sul mercato di metriche coerenti per la misurazione.
Oggi la navigazione dell’utente è diventata più frammentata, multi-device e multi-canale, il che rende ancora più difficile per i brand capire qual è il vero ritorno della pubblicità sui loro investimenti. Utilizzare metriche imprecise può portare quindi a un investimento sul media sbagliato e ad una perdita di budget per l’inserzionista.
La sfida del mercato è quindi di riuscire a individuare nuovi standard più precisi e basati sui dati che permettono una corretta misurazione del ROI delle campagne.
Come misurare il valore realmente generato dalla pubblicità online
Alcuni inserzionisti pensano che valutare l’impatto di una campagna sia una cosa facile, così come paragonare i tra loro i risultati di due campagne. Sfortunatamente
le misurazioni fatte sulla base dei modelli di attribuzione più comuni (last click, last event ecc …) non considerano il giusto valore di ogni media perché spesso il merito della conversione viene attributo all’ultimo touch point anche se non è visibile, se si tratta di un clic di navigazione o se l’utente avrebbe convertito comunque senza essere esposto al messaggio pubblicitario.
Questo sistema rende l’analisi poco obiettiva e non sempre in grado di cogliere il vero valore aggiunto della pubblicità. Uno degli approcci oggi più valido per misurare in maniera più oggettiva possibile il valore generato dall’advertising è quello dell’A/B testing.
Il principio alla base è lo stesso che viene adottato in campo farmaceutico per valutare l’efficacia dei nuovi medicinali. I pazienti vengono divisi in maniera aleatoria in due gruppi: al primo gruppo viene somministrato il farmaco mentre al secondo gruppo una terapia placebo. L’efficacia reale del farmaco corrisponde alla differenza dei risultati tra i due gruppi.
Questo tipo di esperienza è particolarmente adattabile alla pubblicità digitale dove, grazie ai dati, è più facile analizzare il comportamento degli utenti riuscendo così a distinguere le conversioni “naturali” (ottenute anche senza pubblicità) da quelle “incrementali”, generate dalla pubblicità, misurandone così il contributo in valore relativo e non assoluto. In questo modo gli inserzionisti possono ottimizzare i loro investimenti media per massimizzare il loro incremento di business globale: se sappiamo che un canale pubblicitario genera molte visite e vendite, sappiamo dove andare ad investire il nostro budget.
Viceversa, se un canale non ci sta portando ulteriori vendite, oppure paradossalmente sta portando valore negativo (pensiamo all’effetto fastidio del retargeting portato all’estremo) possiamo valutare di ridurre o sospendere l’investimento.
Questi modelli cominciano a essere la norma oltralpe, ma
anche in Italia la consapevolezza sta aumentando. Sempre di più.
Nuove metriche di misurazione
Un vento di novità sta soffiando anche sulle metriche di misurazione della visibilità dei messaggi pubblicitari che mettono in discussione gli standard IAB esistenti.
Come il CPH (cost per hour)
un nuovo indicatore di performance, introdotto inizialmente dal Financial Times nel 2015 sulle campagne display tradizionali che sta iniziando a prendere piede tra gli inserzionisti europei anche nel programmatic, che permette di ottimizzare l’impatto reale delle campagne sull’immagine e la notorietà del brand.
Con il CPH si passa quindi da un criterio di visibilità, dominato dal CPM, a un criterio di durata di esposizione dove gli inserzionisti pagano solo per quegli annunci che vengono realmente visti e sulla base dei secondi di visibilità. Una vera innovazione in quanto
il “pay per real viewability” migliora la fiducia degli advertiser sull’efficacia dei loro investimenti pubblicitari.
Certo non possiamo pretendere che i cambiamenti avvengano da un giorno all’altro, ma le cose stanno evolvendo e sono destinate a rivoluzionare il settore mettendo in discussione quegli attori (agenzie, trading desk, tecnologie) che costruiscono metodo e modelli economici su sistemi di misurazione tradizionali.
Anche se con qualche difficoltà iniziale, questi cambiamenti porteranno valore a lungo termine su tutta la catena e gli inserzionisti otterranno migliori performance e investiranno con maggiore fiducia nei media digitali.
Forse per l’Italia è presto passare alle misurazioni per valore incrementale o a nuove metriche come il CPH, quando è ancora difficile ragionare su modelli di attribuzione che non siano last touch. Tuttavia vedo segnali incoraggianti e a breve ritengo che, sempre più advertiser, soprattutto parte di gruppi multinazionali, prenderanno esempio da altre filiali europee per implementare modelli di misurazione innovativi anche in Italia.
L'articolo è stato scritto da Davide Corcione