Come introdotto nel primo articolo dedicato a neuromarketing e scienze comportamentali, quando dobbiamo prendere una scelta, i nostri istinti e le nostre emozioni si attivano immediatamente, influenzando in modo significativo la cornice entro cui dovrà operare la nostra razionalità. Il neuromarketing – come abbiamo visto - riesce a misurare scientificamente proprio questi meccanismi non consci alla base delle nostre decisioni, gli stessi che le scienze comportamentali – behavioural sciences in inglese – teorizzano e rendono sistematici studiando il comportamento umano. Queste due discipline, insieme, forniscono una più accurata conoscenza dei nostri processi di scelta, del formarsi delle abitudini e dei modi in cui possiamo cercare di modificarle e migliorarle. Per far sì che le persone prendano decisioni migliori – per il proprio benessere in primis, ma anche per la società nella sua totalità – alle volte serve loro avere un piccolo aiuto, una “spintarella”. Ed è ciò che sostiene la teoria dei nudge, pilastro delle scienze comportamentali definito dal premio Nobel Richard Thaler e Cass Sunstein, secondo cui un piccolo aiuto indiretto, tradotto comunemente come “pungolo”, può creare un ambiente di scelta più fluido e “brain-friendly”, motivando così le persone a scegliere nel modo migliore possibile. Un esempio celebre che dimostra l’efficacia dei nudge riguarda una strada ad alto scorrimento di Chicago. Alla fine di un lungo rettilineo che costeggia il Lago Michigan, gli automobilisti si imbattono in una curva molto pericolosa che, nel tempo, ha causato moltissimi incidenti. La città di Chicago è allora intervenuta ispirandosi alla teoria dei nudge, dipingendo sull’asfalto righe parallele e sempre più vicine tra loro man mano che ci si avvicinava alla curva. Creando un effetto ottico che simula un senso di velocità, la segnaletica porta gli automobilisti a rallentare, convinti di viaggiare troppo velocemente. Qualcuno, leggendo un simile esempio, potrebbe tacciare i nudge di essere una tecnica manipolatoria: in realtà su quella strada da anni erano presenti cartelli che raccomandavano di rallentare ma che evidentemente non riuscivano a correggere una pessima abitudine. Intervenire sulla modalità con cui le stesse raccomandazioni vengono comunicate agli automobilisti - aiutando quindi il loro cervello a percepire e decodificare meglio il pericolo imminente - ha reso quelle informazioni più immediate e distinguibili rispetto ad un mero cartello segnaletico. È bastato un facile “pungolo” percettivo per modificare un comportamento rischioso.
Il nudge e gli architetti della scelta
Ma chi si occupa di studiare e ideare questo tipo di sollecitazioni? Gli
architetti della scelta, ossia
esperti capaci di studiare gli ambienti di scelta e costruire percorsi decisionali che limitino possibili frizioni e pregiudizi, più facili da capire e da agire, attraverso modalità e strumenti di comunicazione che sappiano
attivare anche i meccanismi non consci del cervello. Meccanismi che vanno “pungolati”, appunto,
specie quando dobbiamo prendere decisioni difficili: il cervello rettiliano, in cui risiede la nostra capacità di assimilare un’azione e farla diventare abitudine, è infatti più portato a metabolizzare e imparare azioni semplici rispetto a quelle più difficili e complesse. Tuttavia modificare le nostre abitudini, slegandoci da quello che rappresenta la nostra situazione di comfort, quella a cui siamo abituati ad aderire giorno dopo giorno senza rendercene conto, è davvero complicato. Lo sanno bene i principali governi ed istituzioni pubbliche di tutto il mondo, che si sono avvalsi della collaborazione di gruppi di scienziati comportamentali per migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche e facilitare l’adozione di comportamenti virtuosi da parte dei cittadini. Questo deve diventare terreno di sfida anche per i brand, soprattutto per migliorare la customer experience e rendere più fluida, rilevante la comunicazione con i clienti e gli stakeholder.
Come applicare i nudge?
Dobbiamo innanzitutto
capire quali comportamenti ci aspettiamo che le persone adottino, dopo l’esposizione alla nostra comunicazione. In seconda battuta dobbiamo
studiare il contesto in cui i nostri messaggi saranno visti, ascoltati, percepiti e decodificati. Cambiare alcuni elementi dell’ambito in cui viene proposta una scelta è uno dei metodi più efficaci per apportare benefici miglioramenti: inquadrare un’informazione in modo anche solo leggermente diverso può rivoluzionare radicalmente, ai nostri occhi, il messaggio che veicola e modificare anche l’atteggiamento delle persone a riguardo. In Austria, circa il 99% degli abitanti è disposto a donare i propri organi dopo la morte: un numero estremamente positivo, specie se messo a confronto con la vicina Germania, paese anche culturalmente molto affine a quello austriaco, dove però i donatori si fermano al solo 12% della popolazione. Questo perché i form da compilare per la donazione di organi, davanti alla casella da barrare per dare il proprio assenso o diniego, riportano una domanda opposta a quella più diffusa a livello globale. Non si chiede, infatti, se si voglia diventare donatori, ma se non lo si voglia più essere. Ribaltando la domanda, viene ribaltata anche l’opzione di default offerta: donare gli organi è la norma, sta a te decidere se non aderire. Un semplice cambio di prospettiva può rivoluzionare totalmente strategie ed efficacia della comunicazione.
Studiare la comunicazione applicando le conoscenze di behavioural science e neuromarketing è quindi il terzo fattore chiave per costruire un’efficace architettura della scelta: ad esempio per quanto molti di noi fatichino ad accettarlo, il giudizio degli altri influisce e altera il nostro comportamento all’interno della società. Ci piace essere conformi al pensiero comune, e l’esempio degli altri, specie se virtuoso, ci spinge a comportarci di conseguenza. Un messaggio come “
Nove persone su dieci buttano i mozziconi di sigaretta nel cestino”, rispetto a “
Non buttare i mozziconi per terra” è sicuramente più efficace e rende automaticamente l’azione minoritaria sconveniente e negativa ai nostri occhi. Un insight da tenere in mente durante lo sviluppo di campagne pubblicitarie, specie se a tutela di ambiente o salute. Il quarto passaggio necessario è la
sperimentazione, primo tassello per incentivare efficaci e pratici processi di “test and learn”. I processi decisionali sono meccanismi complessi e i contesti, nella loro variabilità, presentano sempre più frizioni: costruire esperimenti pilota su cui applicare “scommesse comportamentali” e poi misurarne gli effetti è la chiave per il successo, nonché l’occasione per sviluppare una cultura della scelta all’interno delle organizzazioni pubbliche e delle aziende.
Un esempio pratico
I nudge, sono stati particolarmente efficaci nell’ambito delle donazioni a favore di non profit e charity, come dimostra questa case history su
Unicef, ospite per due anni, nel 2016 e 2017, di
Certamente, il primo convegno italiano su neuromarketing e behavioural science, organizzato da
Ottosunove. Nel 2016, l’agenzia delle Nazioni Unite aveva l’obiettivo di aumentare mensilmente il tasso di donazioni regolari in Australia, dove la popolazione è più sensibile alle cause legate alla propria nazione, alla propria quotidianità. Per Unicef, si trattava quindi di cambiare il frame, la cornice attraverso cui gli australiani inquadravano la povertà, la guerra e la fame in luoghi lontani dalla loro realtà. Bisognava sottolineare come il disastro, per chi non si può difendere, sia quotidiano: nel mondo muoiono 12 bambini al minuto, 720 in un’ora, 17.240 ogni giorno.
Bohemia Group, agenzia di comunicazione che ha affiancato Unicef in questa campagna, ha quindi ideato una strategia social basata sulle behavioural sciences, per cui sono stati
pensati 8 messaggi legati a 8 nudge diversi, lanciati nello stesso periodo insieme a post di tipo più tradizionale, così da fare un confronto sulla loro efficacia. Gli 8 copy sottoposti rispondevano ai seguenti nudge:
- Gain frame, o contesto di guadagno: “Aiutaci a salvare una vita”;
- Loss frame, o contesto di perdita: “Ogni minuto muoiono 12 bambini”;
- Reciprocità: “Se il tuo bambino avesse bisogno di aiuto, chiederesti donazioni?”;
- Norma sociale: “Quattro australiani su dieci donano regolarmente”;
- Disclosure, o scoperta: “Per ogni dollaro donato, 90 centesimi vanno a un bambino bisognoso”;
- Pre-impegno: “Impegnati a donare regolarmente attraverso piccoli step”;
- Intenzione di azione: “Stai pensando di vaccinare tuo figlio?”;
- Influenza euristica: “Su 100 bambini, 10 possono morire per cause prevenibili”.
I risultati dell’esperimento sono stati sbalorditivi.
Il pubblico esposto ai copy con nudge ha registrato un clamoroso +128% di donazioni mensili, nonché un +148% di click sulle campagne Unicef su Facebook e un +108% di tasso di click sul link che portava alla pagina del sito per donare. Numeri incredibili, specie se si tiene conto che l’obiettivo auspicato da Unicef per l’aumento di donazioni si fermava al solo 28%.
Conclusioni
Il contributo delle scelte comportamentali alla teoria delle decisioni, come abbiamo visto, è essenziale per creare ambienti di scelta in grado di indirizzare le persone a meglio operare per sé e per la società. Affinché queste architetture funzionino, la comunicazione deve essere pensata, costruita e ottimizzata per coinvolgere anche i nostri meccanismi non consci e per essere coerente ai contesti in cui viene processata. I brand possono non tenerne conto, ma lasciare la cura di questi aspetti al caso, sperando che la nostra campagna, il nostro packaging o i post sui social catturino da soli l’attenzione del pubblico e li spingano all’azione può essere rischioso. Fortunatamente oggi ci si può assicurare che i nostri messaggi siano efficaci, rilevanti e ingaggianti per le persone e che scegliere il nostro prodotto sia, alla fine, la scelta più semplice.