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Valori a più voci

A cura di Sergio Amati, General Manager IAB Italia

Storie di valori per il nuovo mondo digitale

08/06/2020
di Sergio Amati

Hackathon permanente

Partiamo dalla storia di una ragazza siciliana piena di passioni e competenza per parlare dell’open innovation e di come la ricerca di idee nuove e la sperimentazione debbano essere una condizione permanente per le aziende che vogliano davvero vincere la sfida del cambiamento

Silvia Amato è una ragazza di Palermo, che ama cucinare, colleziona scarpe e di mestiere organizza hackathon. È per me la rappresentazione tridimensionale di come debba essere il consulente del futuro: flessibile, curioso, creativo, che conosce bene il ruolo della tecnologia e sa come utilizzarla al meglio dentro progetti complessi. Vive il suo lavoro con grande intensità e per lei preparare il suo buonissimo ragù mentre definisce al telefono come scrivere un challenge sulle smart city non è una forzatura ma un fatto totalmente normale. Ha una capacità di resilienza straordinaria e non smette mai di sorridere e pensare positivo anche nei momenti più difficili. Lavoro con Silvia da un po’ e posso sicuramente dire di essere un esperto e soprattutto un appassionato di Hackathon. Sono una modalità di lavoro molto efficiente, permettono di entrare in contatto con giovani talentuosi, aiutano ad avere sempre la mente aperta al cambiamento, e fanno vivere emozioni uniche per l’entusiasmo contagioso dei partecipanti. Qualcuno credo si stia ponendo una semplice domanda: “ma che cos’è una Hackathon?”. Per chi non sia una giovane ninja come Silvia o un vecchio tecnoentusiasta come me, credo sia opportuna qualche spiegazione. La parola Hackathon nasce alla fine degli anni 90, è la combinazione di “hacker” e “marathon”, e fa riferimento ad una categoria, gli hacker appunto, che è spesso considerata alla stregua di quella dei ladri o dei rapinatori. Senza entrare nel tema molto nerd degli hacker “etici”, nel tempo il concetto è mutato e le hackathon sono diventate, da raduni di cattivi craccatori di server federali, delle “maratone di innovazione” dove programmatori software ma anche designer, esperti di comunicazione, sistemisti ecc. si radunano per un periodo di tempo, di solito un paio di giorni, si dividono in squadre e producono idee e progetti sulla base di “sfide” lanciate da aziende. Chi vince si guadagna un premio e spesso ha la possibilità di portare avanti la sua idea e trasformarla in qualcosa di reale. Oggi le hackathon sono parecchio diffuse ma la capacità ormai paranormale di parlare per keyword e di vedere solo la superficie delle cose le ha spesso fatte diventare degli spot attraverso cui le aziende hanno una scusa per raccontarsi come innovative ed aperte. Questo “cancro da keyword” è un problema molto grave. Incontro continuamente grandi aziende che parlano di open innovation e poi vogliono confrontarsi solo con altre aziende di pari dimensioni, che non accettano la diversità e si rifugiano dietro logiche gerarchiche e corporative. Questo si vede moltissimo soprattutto nel middle management che, anche per ragioni anagrafiche, subisce il digitale come un’interferenza, ne farebbe volentieri a meno ma deve mostrarsi necessariamente interessato ad esso per non essere catalogato come obsoleto. La loro mancanza di competenza e soprattutto di curiosità e passione per il nuovo genera iniziative spesso inutili e dannose, e il loro “fastidio” nei confronti del digitale emerge potente quando occorre lavorare sulla sperimentazione, aumentare il rischio e ridurre le certezze. La crisi che stiamo ancora vivendo, lo dico sempre, ci impone di andare oltre gli stereotipi. Una azienda è davvero aperta se ha il coraggio di affrontare il confronto a tutti i livelli. Non esistono più rendite di posizione: chi crede di avere un lavoro stabile, un brand forte e un mercato sicuro deve rendersi conto che la comfort zone, già molto ridotta, è stata definitivamente spazzata via dal ciclone del COVID19. Sviluppare e cercare idee nuove deve essere parte del DNA delle aziende, e occorre avere la consapevolezza che le soluzioni si troveranno in ambiti anche inaspettati. Il DNA è la base, ma su questo si devono costruire organizzazioni che sappiano “contaminarsi” positivamente e che non abbiano timore della contaminazione, e sviluppare partnership, network e strutture permanenti per intercettare le idee, trasformarle in progetti concreti e farle crescere velocemente. Lo spirito di persone come Silvia e come i giovani innovatori che partecipano ai challenge è però quello giusto. Dobbiamo tutti vivere una condizione di “hackathon permanente”, con apertura totale e soprattutto cultura dell’errore. Chi si rifugia nelle certezze in un mondo che cambia velocemente è destinato all’insuccesso. Il principio guida deve essere invece “Try, Fail, Learn, Repeat”: Prova, Fallisci, Impara e Riprova. E come fa Silvia, affrontiamo i problemi con positività: il ragù è dopotutto una delle più grandi innovazioni della storia :).