di Andrea Di Domenico

«L’era dei cookie è già finita». Perché l’utilizzo di questo strumento compromette l’efficacia pubblicitaria

Paolo Pettinato, Cognitive: «Targeting e tracking non possono più basarsi su strumenti così poco affidabili, il media deve abbracciare nuove tecnologie per ottimizzare i risultati di campagna»

Paolo Pettinato, fondatore di Cognitive

Alla fine di luglio Google ha annunciato il definitivo accantonamento del progetto cookieless. Su Chrome i cookie di terza parte continueranno a funzionare, ma sarà implementata la “user choice” in modo che questa sia più consapevole per gli utenti. Non è ancora chiaro se questo significherà un passaggio all’approccio opt-in in stile Safari, rifiutando i cookie di default, o un cambiamento di formula che renda ancora più chiari i partner a cui donare il consenso, ma l’intento di Google è quello di potenziare il controllo sulla privacy da parte degli utenti.

Gli sforzi del mercato per trovare alternative al cookie di terza parte, di fatto, hanno consegnato agli inserzionisti nuovi strumenti da affiancare ad essi, ma sembra che i cookie rimarranno tra i principali strumenti, se non il principale, per attività di tracking e di profile building. Ne abbiamo parlato con Paolo Pettinato, fondatore di Cognitive.

Paolo, qual è il reale apporto dei cookie di terza parte per il digital advertising?

Storicamente i cookie di terza parte hanno mostrato grossi limiti, e la decisione di Google non deve interrompere i progetti che portano a nuove tecnologie per il tracking e la raccolta di informazioni sui consumatori. Bisogna entrare in un’era post-cookie, in cui le tecnologie di tracciamento, con l’aiuto dell’AI e del Machine Learning, portino una rinnovata efficacia in termini di advertising e di privacy.

Quali sono i limiti dei cookie di terza parte?

Ci sono diverse categorie di problemi riguardo ai cookie di terza parte: la distribuzione delle impression sui browser, la scarsa inclinazione degli utenti ad accettarne l’installazione e il limitato ciclo di vita dei cookie stessi.

Uno studio appena pubblicato da Pixalate (qui lo studio) riporta come nel Q2 del 2024, il 41% delle impression mobile veicolate dal programmatic in EMEA è stato erogato su iPhone. Un dato che è in crescita del 16% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Considerando il set up in stile opt-in di Safari, che di default rifiuta i cookie finché l’utente non sceglie di entrare nelle impostazioni e cambiare spontaneamente il consenso, e la rarità con cui questo avviene, possiamo supporre che circa 1 utente su 3 viene raggiunto da annunci “generici”.

Guardando a chi utilizza Chrome o altri browser con una cookie policy meno stretta, abbiamo a disposizione ricerche relative al mercato statunitense e tedesco. Nel caso degli USA il 18% degli utenti rifiuta sistematicamente tutti i cookie, e un ulteriore 19% seleziona accuratamente a quali partner donare il proprio consenso, mentre in Germania questi dati crescono, con il 21% degli utenti rifiuta i cookie e il che 33% sceglie a quali partner dare il consenso (di questi solo il 10% accetta gli advertising cookie).

Per quanto riguarda il lifetime value dei cookie invece, la stessa ricerca tedesca evidenzia che il 58% degli utenti cancella regolarmente i cookie installati sul proprio browser. Alcuni dati relativi al Regno Unito indicano invece che il 13,6% degli utenti dichiara di eliminare i cookie ogni giorno, e la percentuale cresce fino al 34,9% se l’orizzonte di cancellazione è settimanale.

Questa panoramica mostra che i cookie di terza parte sono strumenti dalla limitata affidabilità, diffusione e durata, sia per quanto riguarda la conoscenza dell’utente, sia per il suo tracciamento e per lo sviluppo di azioni di marketing capaci di mantenere una consequenzialità sul singolo utente.

Su quali attività quindi è visibile l’impatto maggiore?

Diventa difficile seguire un utente lungo il funnel se il cookie viene eliminato dopo pochi giorni, e allo stesso modo è complicato avere segmenti aggiornati sugli interessi degli utenti o sui loro intenti d’acquisto. La riduzione dei budget marketing subita dai brand negli ultimi anni ha imposto un’ottimizzazione dei risultati raccolti dai loro investimenti in adv, e questo ha generato grande attenzione sulle strategie full-funnel, capaci addirittura di aumentare il ROI del 15-20% (fonte: McKinsey). Raggiungere i massimi risultati full-funnel significa tenere traccia di un consumatore durante tutto il suo percorso di acquisto, e questo non è possibile se una grandissima percentuale degli utenti non accetta i cookie oppure li cancella dopo pochi giorni, all’inizio del loro customer journey. Lo stesso vale per la creazione di segmenti pre-campagna, spesso basati su interessi dell’utente, ma che diventano poco affidabili se raccolti in pochi giorni.

Quali sono le alternative dell’era post cookie in merito a questi problemi?

Strumenti come il Cognitive ID permettono un tracciamento persistente dell’utente che si spinge per orizzonti temporali superiori ai 12 mesi, immagazzinando ed elaborando così informazioni decisive sulle abitudini di acquisto, sull’intenzionalità e sui meccanismi cognitivi che vengono applicati dall’utente stesso quando si approccia ad acquistare un prodotto o un servizio. Il funzionamento del Cognitive ID non si basa sui cookie, ma sulla raccolta dei segnali deboli emessi dal browser e sulla loro traduzione in ID univoci assegnati ad ogni utente.

Questa tecnologia permette di superare il concetto di funnel “step by step” e adottare una visione fluida del funnel, in cui l’utente viene monitorato in tempo reale e collocato nella fase d’acquisto in cui si trova effettivamente, permettendo così di adattare la delivery dei formati a seconda dei suoi progressi all’interno del funnel stesso. Questo tipo di soluzioni rappresenta un deciso passo avanti strategico rispetto ai cookie, sia in termini di precisione del targeting sia sotto l’aspetto dell’ottimizzazione degli investimenti, in un’ottica totalmente data-based e orientata ai risultati.

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